CAVE CRANIUM
a cura di Angelo Romano

IL PARTITO DEGLI INDUSTRIALI

NON SERVE, CONFINDUSTRIA

FAVORISCA LA TERZA REPUBBLICA

Un’occasione da non perdere. Le critiche al bipolarismo, seppure ancora parziali e soprattutto lasciate senza conseguenze, avanzate da Emma Marcegaglia all’assemblea di Confindustria, e la minaccia che la risposta alla “maggioranza in evidente difficoltà” e all’opposizione “incapace di esprimere un disegno riformista” possa essere la creazione di un “partito degli industriali”, debbono spingere tutti coloro che, dentro e fuori il Terzo Polo, lavorano per la creazione di un nuovo sistema politico e istituzionale, a cogliere l’opportunità che crea il distacco, ormai irreversibile, degli imprenditori dal loro collega prestato alla politica Silvio Berlusconi. Perché si può leggere in molti modi la storia, che è durata 17 anni, del rapporto tra il bipolarismo, il Cavaliere e la Confindustria, e dell’epilogo che sta avendo, ma una cosa ora è certa: quel matrimonio triangolare è finito. E si può e si deve approfittare del divorzio per costruire, più velocemente e meglio, la Terza Repubblica.

Certo, per essere credibile come soggetto capace di farsi carico di un ruolo propulsivo nella transizione verso una nuova fase della Repubblica, la Confindustria deve fare prima di tutto autocritica e completare l’analisi fatta dalla presidente nella sua relazione. Autocritica, perché furono proprio gli industriali, “poteri forti” in testa, a sbagliare, all’inizio degli anni Novanta, quando spinsero se stessi e il Paese verso quella che potremmo definire la fatale “illusione del maggioritario”. Anche allora, come oggi, si trattava di chiudere un capitolo, quello della Prima Repubblica, ed aprirne un altro. Solo che in quella circostanza il desiderio – legittimo, sia chiaro – di essere protagonisti del cambiamento, spinse la Confindustria ad appoggiare esplicitamente il referendum Segni e a favorire, anche tramite i grandi giornali d’informazione, la richiesta di un assetto maggioritario del sistema politico, nella speranza che lo schema “due soggetti, chi vinci prende tutto, chi perde si prepara a rifarsi” potesse risolvere i problemi lasciati dal proporzionale puto, dalla prevalenza del parlamento sul governo e dal ruolo preminente dei partiti. Fu, quello, un ragionamento semplicistico: eccessivamente impietoso sulla Prima Repubblica, che non era da buttare in toto; un po’ provinciale nell’adesione ad esperienze altrui, senza tenere conto del dna del Paese o illudendosi di poterlo cambiare attraverso forzature; molto qualunquista nel giudizio sui partiti e troppo accondiscendente (salvo poi pagarne le conseguenze con i tanti imprenditori e manager finiti in galera) sul comportamento della magistratura e sul presunto ruolo salvifico di Mani Pulite. Sarebbe bastato, invece, che si fosse guardato all’esperienza tedesca per capire che nella loro legge elettorale e nel loro assetto istituzionale c’erano già tutte le correzioni – più che sperimentate – che avremmo dovuto apportare per superare i principali difetti del sistema così come era uscito dalla fase Costituente post-bellica.

Il secondo errore, figlio del primo, fu poi quello di affidarsi, dopo la deludente esperienza del centro-sinistra della legislatura 1996-2001, alla “rivoluzione liberale” del Cavalier Berlusconi. Lì giocarono anche fattori interni al mondo imprenditoriale. Antonio D’Amato fu eletto in contrapposizione al candidato Fiat, Carlo Callieri, da quella larga base di piccoli e medi imprenditori che volevano chiudere l’epoca dello strapotere dei grandi gruppi e che vedevano nel padrone di Mediaset, uno fattosi dal niente che con i poteri forti aveva sempre avuto un rapporto conflittuale, chi avrebbe potuto in un colpo solo archiviare la sinistra, dare una sistemata ad Agnelli e soci e metterli finalmente in condizione di fare come meglio pareva loro. Sta di fatto che quella luna di miele con il Cavaliere non s’interruppe né per via dei deludenti risultati ottenuti dal centro-destra nei cinque anni successiva alla grande vittoria del 2001 né, anche per colpa della pessima prova del governo Prodi dal 2006 al 2008, durante i primi tre anni di questa legislatura. Anche perché quell’inizio di disinnamoramento verso il bipolarismo mostrato dalla presidenza Montezemolo è stato archiviato con infelice scelta dalla Marcegaglia.

Tutto questo fino a poche settimane fa. Quando, dopo aver capito che la sua base non poteva più non tanto e non solo della versione “Cavalier pompetta” del premier, ma soprattutto dei risultati modesti del governo, la stessa Marcegaglia ha cambiato opinione e atteggiamento. Fino alla relazione dell’assemblea, in cui si è messa una pietra sopra, definitiva, sia sul bipolarismo che su Berlusconi.

Certo, ciò che manca alla Confindustria è la proposta su come affrontare il malfunzionamento del sistema politico e istituzionale. Questione dalla quale poi discendono tutte le decisioni mancate prima ancora che le decisioni sbagliate di cui Confindustria si lamenta. A dire la verità, un mezzo passo avanti Marcegaglia lo ha fatto, quando ha detto che il “decennio perduto” che sta alle nostre spalle, quello della mancata crescita, è colpa delle “lacerazioni interne a ciascuno dei due poli della politica, alle prese con problemi di leadership personali anteposti al benessere del Paese”. Ma, appunto, si è fermata qui. Ha avuto il persino il pudore di usare la parola giusta, bipolarismo, figuriamoci se si è spinta nel dirci perché è fallito il sistema bipolare maggioritario e come lo si possa virtuosamente sostituire. Invece, è proprio su questo terreno che gli imprenditori si devono spingere se, una volta capito che non possono contare né sul centro-destra né sul centro-sinistra, vogliono evitare di cadere dalla padella nella brace illudendosi di poter fare da soli. Ma perché questo accada, e per evitare la sciagurata ipotesi della discesa in campo o “partito degli industriali” o di qualcuno che lo faccia in nome loro – cioè non molto diversamente da quello che fece Berlusconi nel 1994 – occorre che Confindustria sia aiutata a completare la sua analisi e prenda il coraggio della proposta (che può fare in quanto tale, senza bisogno di “discese in campo”). E chi meglio del Terzo Polo e più in generale dei fautori del superamento del bipolarismo italico e della creazione di una Terza Repubblica in salsa tedesca, può farlo? Si attendono iniziative.

(da terzarepubblica.it il quotidiano on-line di Società aperta)

 La sindrome di Crono

“I sondaggi sono negativi, stavolta lascia”. “No, sta solo testando le reazioni sul nome di Alfano”. “Macché, prende tutti per i fondelli, vuole che i pretoriani si scannino e si riconfermi la sua indispensabilità”. Siamo di fronte all’ennesimo dibattito inutile. Chi in queste ore s’interroga sull’attendibilità o meno dell’asserita volontà di Silvio Berlusconi di non ricandidarsi a premier, spreca il suo tempo. Perché quale che sia la scelta del Cavaliere, il tema della successione non esiste, è un nonsenso. Infatti, la leadership carismatica, di stampo peronista, non può essere lasciata in eredità ad alcuno – anche ammesso, e comunque in questo caso non concesso, che tale sia la volontà dell’uscente di scena – ma può solo essere conquistata da qualcun altro che s’imponga con gli stessi mezzi. Diverso, invece, un passaggio di testimone che avvenisse nella dimensione politica. Ma non è questo il caso. Sia perché Berlusconi, il ruolo di “padre nobile”, come ha ora definito un suo guidare il partito nella campagna elettorale per poi lasciare lo scettro del governo a qualche “figlio prediletto”, lo avrebbe potuto scegliere già nel 1994, quando molti gli consigliarono di mandare a palazzo Chigi qualcuno che di governo e di macchina dello Stato avesse esperienza, e di ritagliarsi lo spazio di leader di Forza Italia. Non lo fece, purtroppo. Ma sperarlo fu una puerile ingenuità. Non solo perché significava non conoscere bene il personaggio, ma perché, soprattutto, significava non aver capito quali implicazioni avesse la scelta bipolar-maggioritario-leaderistica che lo portò, come “figlio” della stagione di Mani Pulite, a battere la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto. Scelta che non soltanto ha introdotto, in modo surrettizio rispetto al dettato costituzionale, la prassi della premiership strisciante, ma soprattutto ha permeato (nel senso di inquinato) la Seconda Repubblica della dinamica contrappositiva “berlusconiani-antiberlusconiani”, tuttora vigente, che per sua natura prevede la presenza sulla scena politica di Berlusconi e solo di lui, non di un suo sostituto. Quale che esso sia, e anche se fosse da lui indicato.

In altre parole così come per chiudere la stagione politica chiamata Seconda Repubblica occorre l’uscita di scena di Berlusconi, altrettanto l’eventuale chiusura dell’esperienza politica di Berlusconi comporta la fine della Seconda Repubblica. Rendendo con ciò impossibile la cosiddetta “successione”. Poi possiamo discutere, sia in termini di probabilità che di opportunità, se questo passaggio è realizzabile attraverso un qualche passaggio parlamentare – ma il 14 dicembre sembra aver messo una pesante ipoteca negativa su questa ipotesi – oppure direttamente per via elettorale. Opzioni, queste, molto importanti, perché a seconda di quale delle due strade si dovesse imboccare, gli scenari politici e i protagonisti, sarebbero destinati a cambiare.

Naturalmente, tutto questo dipende molto da Berlusconi, ma non esclusivamente da lui. Il suo perpetuarsi, anche dopo i reiterati e acclarati fallimenti, è dipeso in buona misura dall’incapacità dei suoi avversari di costruire e rappresentare agli italiani un’alternativa. Attenzione, non solo un nome e una coalizione da contrapporgli, perché quello è avvenuto, e per ben due volte è riuscito, ma l’idea di un sistema alternativo. Invece il centro-sinistra ha puntato tutto solo sul sentimento avverso a Berlusconi, raccogliendo così un’armata Brancaleone che poi gli ha impedito di governare, rispondendo alle osservazioni critiche relative al sistema di contrapposizione armata che si era creato con il banale, e inutile, auspicio che si potesse affermare un “bipolarismo maturo”. Senza capire che quello all’italiana è un bipolarismo armato non per sfortuna o immaturità, ma proprio perché si è costruito intorno alla figura di Berlusconi, a sua volta prodotto inevitabile delle contraddizioni insite nel processo di caduta della Prima Repubblica, nella fase malata di egemonia della magistratura sulla politica iniziata nel 1992 e tuttora vigente, e della scellerata scelta di cancellare i partiti e i loro radicamenti culturali a favore di un individualismo senza limiti che nel migliore dei casi ha prodotto leader ma non statisti e nel peggiore, quello che stiamo vivendo, un caravanserraglio di mediocri, incapaci e spesso lestofanti.

Dunque, sarà bene evitare di entrare per l’ennesima volta nel tunnel di una discussione tanto assurda quanto inutile. Berlusconi, anche volendolo, non può avere eredi. Con lui finirà la Seconda Repubblica, e il tema per chi pensa al futuro – speriamo più prossimo possibile – è quello di come dar vita alla Terza. Certo ponendo la questione di chi incarnerà questo passaggio, ma sapendo che sarebbe un errore esiziale – per chi lo commettesse, ma soprattutto per l’Italia – ripercorrere la strada tutta berlusconiana del preoccuparsi solo dell’individuazione dei leader, misurati sulla base del grado di consenso che gli deriva dalla loro immagine, e non dell’elaborazione delle idee, dei progetti, dei programmi.

(da terzarepubblica.it il quotidiano on-line di Società aperta)

Si riparte
La rottura definitiva si é consumata. Rivellini si é dimesso da Coordinatore Regionale di Fli, prende il suo posto Luigi Muro. Pietro Diodato é il nuovo Coordinatore provinciale di Napoli. Si riparte.
Questa mattina, in un'affollata conferenza stampa, presente il candidato sindaco per il Polo per l'Italia, Raimondo Pasquino, i nuovi vertici hanno ribadito lealtà verso il Terzo Polo ed il convinto sostegno al Prof. Pasquino.
Il candidato sindaco ha ribadito il suo obiettivo di arrivare al ballottaggio e la sua intenzione di affrontare i tanti problemi della città che, come ha detto: "non sono né di destra, né di sinistra, ma solo questioni da risolvere".
Erano presenti, tra gli altri, i consiglieri provinciali Flauto, Belleré e Marano, i consiglieri comunali De Masi, Santoro, Ambrosino e Ranavolo, molti consiglieri circoscrizionali, tra cui Ugo Chirico e molti candidati.
Per gli alleati c'erano Pasquale Sommese, Ciro Alfano e Giuseppe Maisto.
8 aprile 2011
Che sta succedendo?
Rivellini si schiera con Lettieri e prova a schierare Fli con lui. Bocchino mette nelle mani di Menia il simbolo e ribadisce la imprescindibilità del Terzo Polo. Urso e Ronchi, che hanno organizzato insieme a molti altri, nell'area Fli, l'associazione Fare Italia,
dicono di comprendere le ragioni di Rivellini. Una bufera lacerante che forse si poteva prevedere ed evitare.
Il seme é stato posto una ventina di giorni fa, quando Italo Bocchino ha voluto gratificare Luigi Muro, per il suo passaggio in Fli, con il Coordinamento provinciale di Napoli. Con ciò mortificando, forse senza volerlo, quanti avevano lavorato, e bene, fino a quel momento.
Poi é arrivata la "conversione" di Piero Diodato - che mai ha nutrito simpatie finiane - e dei suoi amici, compensata da Bocchino con il Coordinamento cittadino, nonostante il dissenso di Rivellini sul metodo.
Questo ha scatenato il terremoto. Perché ha rappresentato, o almeno così é stato interpretato, un forte ridimensionamento delle prerogative del Coordinatore regionale, una sorta di commissariamento di fatto, pur avendo Rivellini lavorato bene e con risultati visibili.
Certo non é stato un atto di cortesia "democratica e partecipata".
Ma, si dirà, un partito come Fli deve poter accogliere tutti, purché se ne condivida il progetto e si abbiano i requisiti previsti dallo specifico Codice Etico. Certo. Ma é la "conversione" ricompensata con una carica che forse ha in sé qualcosa di non etico, e non solo..
A maggior ragione se la carica che offro non é, a rigore, nella mia giurisdizione, a maggior ragione se la decisione azzera e mortifica il lavoro fatto da altri, che hanno creduto nel progetto fin dal primo giorno, a maggior ragione se il quadro di partito napoletano che ne viene fuori, somiglia molto ad un quadro già visto quando esisteva AN.
Ora restano i cocci che sarà difficile rimettere insieme. Italo Bocchino forse dirà, con Cocciante, che "era già tutto previsto" e perciò ha agito così, Enzo Rivellini, ancora più offeso, dirà: "o io o lui". Resterà la ferita, il danno in consenso ed immagine.
Per il bene di Fli noi speriamo in un miracolo che sani le fratture, in regole e decisioni che le evitino in futuro, nella piena maturazione di una cultura del confronto, della lealtà, della reciprocità, nel superamento del centralismo, del partito degli eletti, della meritocrazia della furbizia e degli effetti speciali.
Nessuno nasce perfetto, ma lo può diventare. L'ottimo non é nemico del buono, é solo il buono che si fa migliore.
Comunque sia andremo avanti, fedeli al progetto, agli impegni presi, a Gianfranco Fini, sopra ogni altro.
7 aprile 2011
Tende "da sole"
Spuntano come funghi le tendopoli al Sud. Per volontà della Lega gli africani devono strare con gli "africani".  Il Sud, come sempre, non si lamenta di nulla e subisce silente.
Ne ha visti talmente tanti di stranieri nella sua storia che si é assuefatto. Tutti hanno dato qualche morso per poi andar via.
Pur pieno di morsicature e di lividi, il Sud non si tira mai indietro quando si tratta di accogliere.
Ha imparato che da cosa nasce cosa, che la civiltà nasce dal crogiuolo dei popoli, dalla sperimentazione del nuovo, dal confronto di culture, dallo scambio, dalla tolleranza, non dal chiudersi nelle proprie valli, nel "maso chiuso".
Ha imparato che, a volte, persino dal giogo può nascere la primavera di un popolo.
Dai coloni Greci nacque la Magna Grecia, dai discendenti dell'esule Enea nacque Roma, da Cartagine e dalla Grecia l'identità siciliana, dallo svevo Federico, "stupor mundi", un nobile Regno e le sue capitali, dai Normanni città e Ducati,
Gli Aragonesi, i Francesi, gli Austriaci, pur mordendo, hanno lasciato qualcosa, accrescendo il Regno. Ed infine i Piemontesi, Padani ante litteram, che hanno lasciato ben poco, se non un'idea di Italia squilibrata.
Eppure il Sud ha creduto in quell'idea, dando fiducia a Garibaldi, sostenendolo, aprendogli le porte delle città. Ma Garibaldi, che pur voleva un'Italia uguale, libera e unita, fu costretto all'esilio e a cedere il Sud "liberato".
E da allora il Sud ha subito la stessa sorte: esiliato in Italia. Fuori dalle palle, per dirla con Bossi.
Fuori dai processi decisionali che contano, fuori dai salotti buoni della finanza, fuori dalle cabine di regia dei poteri forti, fuori dai processi di sviluppo che contano per il futuro, fuori dal sistema industriale che produce per la produzione, fuori dal sistema bancario.
Se così non fosse stato, non sarebbe ancor'oggi: "Questione meridionale".
Il Sud é pronto ad accogliere anche perché ha dovuto essere lui stesso migrante. Nel suo codice genetico si sono indelebilmente stratificate le umiliazioni subite, le disinfezioni coatte alle frontiere, le saponette offerte insieme ad un visto di ingresso,
i sequestri degli "immondi" salumi portati da casa.
Di fronte alla tragedia dei tanti disperati che sbarcano sulle nostre coste il Sud risponde con solidale tolleranza e con la rassegnazione di sempre.
Ma questo non deve far ritenere a chi governa che non c'é un limite, non deve far confondere la tolleranza con l'acquiescenza.
La solidarietà é un dovere, la disponibilità ad integrare é figlia della cultura e della civiltà, dare rifugio ai profughi é atto umanitario, ma inondarci di clandestini, per di più vogliosi di andare altrove, é scelleratezza e le tendopoli sono indecenti.
4 aprile 2011 
Pattugliare il confine
A Malta, che fa parte dell'Unione Europea, nessun barcone di immigrati prova più neanche ad avvicinarsi, dopo i fermi respingimenti in mare operati dalla marina maltese.
Gli Usa, patria delle democrazia, hanno eretto un muro lungo il confine col Messico e sparano su chiunque tenti di oltrepassarlo.
Persino i tunisini impediscono ai nostri pescherecci di entrare nelle loro acque territoriali, come ben sanno i pescatori di Mazara..
L'Italia dovrebbe essere un po' più energica nella gestione della questione immigrazione, visto anche il menefreghismo dell'Europa. Ne va della sua sicurezza e del suo futuro.
Il confine italiano non é Lampedusa, ma il limite delle acque territoriali.
Basterebbe pattugliare quel limite, impedendo a chiunque di oltrepassarlo.  Ciò senza, ovviamente, sparare sui poveri disperati. Anzi offrendo loro acqua, cibo e, persino, carburante per aiutarli a tornare da dove sono venuti.
Resterebbe insoluta la questione degli ipotetici profughi che dovessero trovarsi tra i clandestini. Ma per questo ci sono le Ambasciate, i Consolati, gli Osservatori dell'Onu, il personale della Croce Rossa e delle altre agenzie umanitarie.
Basterebbe autorizzarli, con un accordo internazionale ad hoc, a certificare, con criteri di difficile contraffazione, lo status di profughi per coloro che, avendone diritto, ne facciano richiesta, precisando anche il Paese in cui vorrebbero essere accolti.
I pattugliatori avrebbero così modo di discernere a monte chi far trasbordare e chi no. In mancanza di visto, tutti a casa.
D'altro canto chi si meraviglia o si indigna per non poter in alcun modo entrare negli Usa senza un visto?
3 aprile 2011
La strategia che fa acqua
Il Governo ha autorizzato con decreto il Tesoro  ad acquisire partecipazioni in imprese ritenute strategiche o per ragioni occupazionali.
La decisione viene a margine delle incursioni francesi in Italia, in particolare per blindare Parmalat dalla scalata da parte di Lactalis.
Quindi la produzione del latte e dei suoi derivati é reputata strategica dal Governo. O meglio: é l'italianità ad essere strategica.
Questa scelta induce alla riflessione su un altro liquido tutto italiano: l'acqua. Se é strategico il latte perché, a maggior ragione, non dovrebbe essere strategica l'acqua?
E questo ci porta al prossimo referendum sulla privatizzazione dell'acqua, o più precisamente: dei servizi di distribuzione e delle reti in quanto l'acqua resterebbe un bene pubblico.
Non v'é dubbio che sotto il profilo strategico il controllo della distribuzione dell'acqua é cosa rilevante. Tanto sul piano della tutela dei cittadini da rischi sanitari o da attentati, quanto su quello della tutela della nazione in caso di conflitto con lo Stato di appartenenza del gestore della distribuzione. Finché i libici detengono una banca poco male, ma se avessero posseduto la distribuzione dell'acqua?
Per altri versi non é assolutamente codificato che la gestione pubblica non possa essere efficace quanto quella privata. Basta solo che le regole siano chiare, trasparenti, ineludibili e che il management sia all'altezza..
Per questo sia sull'acqua che sul nucleare andrebbe affinata la riflessione referendaria.
1 aprile 2011

Mens sana in insula sana

Show del Cavaliere a Lampedusa. Compra una villa vista mare per diventare lampedusano e per “certificare” il suo interesse per le sorti dell’isola , promette un piano colore per renderla più attraente, un piano verde affinché sia meno brulla, esenzione fiscale per un anno, una zona franca, il rilancio del turismo, l’evacuazione completa dei migranti in quarantotto ore e l’acquisto di pescherecci perché, quando sarà avanti negli anni, potrebbe sempre pensare, da imprenditore, di metter su un’industria per il pesce fresco, ma fino ad allora non si dovrebbero usare. Quest'ultimo punto suscita qualche perplessità interpretativa.

E se il Presidente del Consiglio avesse visitato la Libia? Probabilmente avrebbe comprato un migliaio di ettari di deserto per farne un’oasi dove allevare cavalli berberi. Ma guai a farli correre.

31 marzo 2011

E' tempo di cambiare
Raimondo Pasquino, candidato sindaco per il Terzo Polo, ha aperto la campagna elettorale al teatro Augusteo. A supportarlo Fini, Casini e Rutelli. Enzo Rivellini ha fatto gli onori di casa.
Il teatro era strapieno, a sottolineare il grande interesse della città per il nuovo Polo, che vuole essere, per l'Italia e per Napoli: "il Polo del cambiamento".
Peccato che Fini, Casini e Rutelli siano stati accolti da una città di nuovo stracolma di immondizia non raccolta e con strade dissestate e piene di buche.
Tuttavia il riscatto é a portata di mano, anzi di voto. Bisogna che i napoletani ci credano, che escano dal torpore, dall'indifferenza, dalla voglia di astenersi per le tante delusioni subite.
Nel panorama delle candidature, tra un Lettieri, "laureato sindaco" dai soliti "baroni", un ex prefetto che ha già "commissariato" le primarie del PD ed un ex Pm che ha "imbroccato" ben poche inchieste, Raimondo Pasquino emerge come uomo capace. L'Università di Salerno, di cui Pasquino é Rettore, ha maturato molti primati: é autosufficiente sul piano energetico grazie agli impianti di energia rinnovabile, ha realizzato i campus per gli studenti, ha i conti in ordine.
Ed é proprio di capacità che Napoli ha urgente bisogno.
Capacità di gestire bene l'ordinario e di valorizzare l'esistente, unita alla capacità di guardare lontano, di gestire lo straordinario, di attuare una strategia in grado di affrontare e vincere le battaglie dello sviluppo e della qualità della vita.
Per far questo occorrono idee chiare, una visione d'insieme, progetti coordinati e temporizzati e il coraggio di cambiare.
Le forze del Polo per l'Italia e Raimondo Pasquino, hanno la voglia, le idee, le capacità, lo spirito innovativo per far risorgere Napoli, per portare la città fuori dal baratro in cui trent'anni di governo di Centrosinistra e di opposizione largamente consociativa la hanno sprofondata. Ora tocca ai cittadini scegliere con saggezza per determinare un futuro di qualità e di libertà.
29 marzo 2011